Le cronache degli ultimi giorni raccontano di ragazzi appena adolescenti capaci di azioni efferate nei confronti di poveri barboni o stranieri indifesi.
Cosa ispira tanta violenza verso persone deboli e indifese da parte di giovani a cui apparentemente non manca niente? Forse è proprio nell’apparente completezza del loro mondo che risiede il problema, perché di fatto sono convinto che in questi ragazzi manchi qualcosa di essenziale: il rispetto dell’altro e la piena consapevolezza della vita, tanto che la morte diventa banalità, ed uccidere è un modo come un altro per uscire da un problema. Questi ragazzi non hanno più il senso del mistero e del limite dell’uomo. Oggi domina la cultura del nemico come conseguenza di una superficialità diffusa che porta l’identità a proiettarsi sul nemico che alla prima occasione deve essere oppresso. Se uno non ha un nemico, non riesce quasi a caratterizzare se stesso. Questo è decisamente una regressione umana perché porta ad agire solo secondo pulsioni ed istinti primordiali.
Giovani spavaldi, dunque, convinti di conquistare il mondo attraverso la sopraffazione su chi ha un diverso colore della pelle o su chi non dovrebbe occupare un’anonima panchina dei giardini pubblici. Nei casi più estremi la sopraffazione diventa brutalità e sfocia in omicidio.
Arroganti, violenti e forti, sì, ma estremamente fragili nei valori, incapaci di riconoscere e di manifestare i propri sentimenti, di accogliere chi è diverso, e forse orfani di adulti che sappiano proporsi loro come punti di riferimento, come modelli di vita realizzata.
Proprio gli adulti, infatti, devono sentirsi responsabili dei giovani, della loro maturazione umana e se credenti, anche per quella di fede.
Ecco allora che nessuna comunità cristiana può abbandonare i ragazzi nella loro fase di crescita più delicata, della preadolescenza e dell’adolescenza. Un’età in cui si rinasce per la seconda volta, si comincia a scoprire il mondo e a fare scelte che segneranno profondamente la vita.
Ci vogliono educatori che sappiano mettersi al loro fianco per ascoltarli, per condividere molto tempo con loro per intercettare i loro bisogni più veri e alle volte nascosti. Servono educatori formati per aiutare i ragazzi ad affrontare le loro fragilità, a chiamarli per nome e a compiere, seppur a piccoli passi, un cammino orientato alla scoperta di sé e alla conoscenza di Gesù come amico che non delude. La sfida dell’accompagnamento nel tempo della Fraternità, va in questa direzione ci riusciremo?
Giorgio Bezze