Non risolveremo tutto, ma…
Giorni fa, durante il primo laboratorio di uno dei tanti corsi per gli accompagnatori dei genitori impegnati nel nuovo cammino di iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi, chiedendo ai partecipanti quali fossero le loro attese, uno dei sacerdoti presenti ha risposto: «Mi aspetto che la nuova proposta dell’iniziazione cristiana possa funzionare, visto che ci avete fatto cambiare, e porti risultati migliori rispetto a quelli che finora abbiamo avuto in parrocchia».
Vorrei iniziare proprio da questa risposta la mia riflessione, immaginando che l’attesa di quel sacerdote rispecchi sostanzialmente le attese degli altri, magari non espresse con la stessa intensità o con la stessa chiarezza.
La prima considerazione è che la scelta di cambiare modello di iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi non è stata frutto di una decisione presa arbitrariamente, senza un ascolto attento della realtà diocesana e un coinvolgimento di tutti i livelli degli operatori pastorali, a cominciare dai catechisti fino ad arrivare ai membri del coordinamento vicariale e del consiglio pastorale parrocchiale. Si deve, infatti, ricordare che il compito di iniziare alla vita cristiana non riguarda solo i catechisti, ma l’intera comunità cristiana, fatta di adulti battezzati che vivono una vita di testimonianza e che si ritrovano a celebrare l’eucaristia.
Inoltre, la scelta è stata voluta dallo stesso vescovo Antonio che in più occasioni, ricordando il contesto culturale notevolmente cambiato rispetto a qualche decennio fa, l’ha definita una decisione ineludibile.
Un’ulteriore considerazione va nell’ordine dell’efficacia riconducibile al nuovo modello di iniziazione cristiana. Naturalmente, nessun impianto di iniziazione cristiana è in grado di assicurare un risultato sicuro, se per tale s’intende la garantita e totale partecipazione alla vita della comunità parrocchiale dei ragazzi e degli adulti o alla messa domenicale; del resto neppure il modello tradizionale, portato avanti per decenni dalla Chiesa, è riuscito in questo difficile intento.
Al di là di tutti i metodi e i percorsi proponibili, il cuore della questione resta sempre la vitalità della comunità cristiana, cioè la capacità degli adulti di saper vivere con autenticità, freschezza e concretezza la loro fede, per poterla offrire, non solo a parole, ma con la propria stessa vita, a chi ancora cristiano non è: in particolare i bambini e i ragazzi. Ripensare, quindi, il modo di iniziare alla vita cristiana è prima di tutto mettere in atto una conversione comunitaria.
Anche il modello scelto dalla nostra diocesi, ispirato al catecumenato, non risolverà tutti i problemi e non garantirà un’assoluta efficacia, ma sicuramente ha il pregio di invitare tutti a un tirocinio. Tirocinio vuol dire una preparazione comune, che non coinvolge solo i ragazzi e i genitori, ma anche i catechisti: come adulti e come preti ritorniamo tirocinanti della fede. Non si può infatti credere per gli altri, bisogna credere con gli altri, insieme a loro.
L’intento catecumenale, poi, porta progressivamente a mettere in evidenza la scelta consapevole e l’assunzione di una “differenza”, di un modo di vivere basato sul Vangelo, e positivamente critico rispetto alla mentalità corrente. Gli elementi fondamentali di tale modello sono l’accesso libero, la progressione per tappe, l’inscindibile legame tra catechesi-celebrazione-esperienza ecclesiale, il coinvolgimento degli adulti e la centralità dell’eucaristia.
Un’ultima considerazione: la sicurezza di un buon esito non è data dai numeri, dalla quantità delle adesioni, ma dalla qualità dell’impegno e dei comportamenti, dalla consapevolezza della propria scelta di fede e dall’appartenenza, vera e sentita, alla comunità ecclesiale. Ma di tutto questo solo il tempo potrà dare risposte certe.
Giorgio Bezze
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