Per un Natale «più dolce del miele e di un favo stillante»

La dolcezza appartiene al Natale e in questi giorni tutto sembra volercelo ricordare: quante leccornie ci scaldano i sensi, ci parlano di dolcezza e, forse un pochino, contribuiscono a renderci “più buoni”. Ma nella liturgia del Natale, cos’è questa dolcezza? La millenaria tradizione della Chiesa ancora ci aiuta ed «estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Matteo 13,44) e lo fa, a volte, in modo inaspettato. Siamo soliti pensare, e lo facciamo giustamente, all’esperienza dell’esodo del popolo di Israele come ad un’esperienza pasquale. Eppure, nella Vigilia del Natale, la Chiesa canta proprio le parole di Mosè e Aronne incarnandole in un nuovo contesto che è quello liturgico del fare memoria della nascita del Redentore. L’Ufficio delle Letture del 24 dicembre si apre con il salmo invitatorio e la sua antifona che così canta: «Oggi saprete che il Signore viene: col nuovo giorno vedrete la sua gloria». Quest’espressione non si trova identica nella Scrittura ma il riferimento a quel “oggi saprete-domani vedrete” è un’allusione esplicita al libro dell’Esodo dove leggiamo: «Mosè e Aronne dissero a tutti gli Israeliti: “Questa sera saprete che il Signore vi ha fatti uscire dal paese d’Egitto; domani mattina vedrete la Gloria del Signore”» (16, 6-7). In quell’occasione la gloria del Signore si manifestò con due segni prodigiosi che furono esperienza di dono e salvezza per il popolo: la carne delle quaglie alla sera e la manna alla mattina. La voce di Mosè e Aronne tuona ancora nella Chiesa e lo fa predicendo un nuovo dono imminente che non è più la manna dei Padri. Con slancio poetico, alcuni autori nel XII secolo arrivano a dirci che c’è un nuovo cibo: «Cristo è la vera manna, il pane che discende dal cielo, come nettare stillante, per posarsi in una rosa [Maria], senza corromperla ma rendendo nuovo tutto il mondo».

È da questo trittico Cristo-manna-Natale che sgorga la dolcezza. Si tratta di un’esperienza da gustare, come fece Israele quando si nutrì di quel dono divino che «aveva il sapore di una focaccia con miele» (Esodo 16,31), un doppio sapore, di pane e miele. E così è Cristo che ha in sé due sapori: il pane dell’umanità e il miele della divinità. In Avvento la Chiesa quasi geme cantando al suo Dio: «Rorate caeli desuper» (Stillate rugiada, o cieli) e chiede il dono di quel ros, quel miele celeste che stilla dall’alto per essere dono per noi. A Natale l’attesa volge al compimento e il canto lo attesta affermando: «Hodie nobis de caelo pax vera descendit: hodie per totum mundum melliflui facti sunt caeli» (Oggi, per noi, è scesa la vera pace dal cielo: oggi, per tutto il mondo, i cieli sono diventati grondanti di miele).

Il Natale è dolce perché Cristo è dolce come il miele, anzi «più dolce del miele e di un favo stillante» (Salmo 18,11) e questo dono è “per noi”. Sono giorni in cui il sentimento sembra predominare su tutto; eppure, la liturgia ci parla di un’esperienza sensibile concreta, di gusto e nutrimento come fonte di energia e vita per un popolo stanco e affaticato dal cammino. E per noi Chiesa, nuovo popolo di Israele, il dono si manifesta in modo definitivo come una terra promessa in cui già, e non ancora, siamo entrati: la terra dove scorrono latte e miele. Ma l’ingresso è stato reso possibile per il Mistero della Pasqua che, come vediamo, è cantato nel Natale, in quel Bambino che, adorando, culliamo con la nostra voce. La tradizione cristiana, da secoli, ha cercato di rappresentare questa volontà del Padre di redimerci nel Figlio. Un concetto che i dotti teologi hanno illustrato con pagine meravigliose ma spesso troppo complicate per la gente umile, come quei pastori alla grotta. L’arte, al contrario, ha cercato di tradurre questo concetto con un’immediatezza eloquente. Nei quadri, quel bambino nasce ma presenta già i simboli della Passione: è adagiato su un cuscino nero, o avvolto in fasce che sono bende sepolcrali, ha al collo una collana di corallo rosso e gioca con un cardellino dal capo vermiglio, come il sangue di quella fronte dove si sporcherà per sempre cercando di togliere una spina. Le arti visive parlano così e, similmente, la musica non tace. Nel giorno di Natale la Chiesa canta «Puer natus est nobis» (Per noi è nato un bambino) e quel “nobis” echeggia di un altro “nobis”:

«Christus factus est pro nobis»: «Cristo per noi si è fatto obbediente sino alla morte, e alla morte in croce» (cfr. Filippesi 2,8). È il Responsorio che accompagna il Triduo Pasquale. Ma oltre a quel “nobis”, cosa accumuna questi due canti? Anche il vocabolo “nomen”: «Per questo Dio lo ha innalzato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome» (2,9). Un nome che risuonerà nella notte di Natale per le parole di Isaia: «il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace» (9,5). Profezia compiuta che noi vediamo, cantiamo e gustiamo perché il Natale è davvero un dolce giubilo: sa di pane e miele, di cibo di salvezza eterna.

don Claudio Campesato

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