Dal Vangelo secondo Giovanni (15,1-8)
«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Per approfondire…
La metafora della vite e dei tralci descrive il rapporto che i credenti possono avere con Gesù Risorto. L’immagine è presente anche nell’Antico Testamento per descrivere il popolo eletto d’Israele quale vigna prediletta di Dio. La novità introdotta dal vangelo è che la vigna ora è Gesù: è in lui che si realizza in modo pieno il tipo di rapporto filiale che da sempre Dio desidera intrattenere con l’umanità.
Il brano è suddivisibile in due momenti: i vv. 1-4 descrivono come è possibile essere discepoli di Gesù risorto; i vv. 5-8 approfondiscono il tema, descrivendo i contenuti del discepolato.
Ciascuno di questi due momenti principali del brano sono introdotti dalla frase: «Io sono la vite».
Il primo versetto del brano consegna due metafore: Gesù come vite e Dio Padre come agricoltore. Gesù, in questo versetto, dice di essere la vite vera. Quel rapporto di predilezione tra Dio e Israele, contrassegnato da tante infedeltà e resistenze, ora trova in Gesù la pienezza: lui è oggetto dell’elezione divina. L’aggettivo vera, nel linguaggio di san Giovanni, segnala un profondo legame con ciò che proviene da Dio: verità, nel Quarto Vangelo, è la rivelazione, ossia la volontà eterna di Dio di dialogare con noi, affinché dal dialogo con lui noi possiamo avere la vita. Presentandosi come vite vera, Gesù annuncia di essere l’eletto di Dio, che fa conoscere il volto autentico del Padre a tutta l’umanità.
La seconda metafora, Dio agricoltore, suggerisce il legame profondo tra Gesù e Dio, poiché Dio è suo Padre, il “proprietario della vigna”: la vita di Gesù è caratterizzata da un rapporto di dipendenza dal Padre. Una dipendenza che non lo rende schiavo, sottomesso, asservito: al contrario, una dipendenza che lo genera incessantemente come figlio. Nella sua relazione con il Padre, Gesù impara a diventare Figlio e a vivere con Dio Padre un rapporto che non sia altro se non quello della figliolanza.
Delle tante attività di un agricoltore, il testo ne sottolinea una in particolare: il taglio, la potatura. Ogni tralcio improduttivo viene eliminato, mentre i tralci fecondi ugualmente necessitano di un taglio di potatura, affinché si rafforzino per produrre più frutto. Dio Padre opera in noi affinché produciamo frutto. Ma quale frutto il Padre desidera che noi produciamo? Lo scopriremo alla fine del brano. Per ora, continuiamo a contemplare il volto di Dio Padre che vuole per noi la fecondità della vita e delle nostre persone. Un secondo aspetto: non si tratta, in questo secondo versetto, di un generico produrre frutto, ma, come recita il testo, «ogni tralcio che in me» non porta frutto: in me, cioè in rapporto alla nostra relazione con Gesù. Ritroviamo, allora, un’amara possibilità: essere discepoli sterili, improduttivi, insignificanti. Discepoli per i quali la relazione con Gesù e l’incontro con lui non cambiano la vita, non la accendono di passione, di capacità di contagiare e attrarre altri. C’è, pertanto, ed è reale, la possibilità di essere cristiani infruttuosi, che il Padre taglierà via dalla vite. C’è pure la necessità di essere potati per portare frutto: questa potatura è un essere messi alla prova, essere testati, lungo il cammino della vita, per saggiare lo spessore, la profondità, l’autenticità della nostra adesione di fede a Gesù. Il testo originale utilizza una stessa radice lessicale che in italiano viene tradotta in due modi diversi nei v. 2 e 3: potare e purificare. Essere potati, allora, significa essere purificati. Questa purificazione avviene mediante la Parola che Gesù ha annunciato e che il vangelo ci trasmette. Attraverso la Parola del vangelo Dio Padre purifica, pota, mette alla prova il nostro cammino affinché possiamo portare frutto.
Dopo aver descritto l’attività dell’agricolture, il testo continua con il v. 4 e propone un invito: «Rimanete in me e io in voi». Il verbo rimanere è fondamentale nel vangelo secondo Giovanni: indica un legame profondo e intimo, un rapporto personale. Rimanere segnala una fedeltà: la fedeltà di Gesù, manifestata nella sua Parola, rimane nel cuore del credente e il credente, rimanendo fedele alla Parola di Gesù, resta unito a lui e, attraverso di Lui, al Padre. E questa è la salvezza. Per portare frutto, il tralcio deve necessariamente restare unito alla vite, deve accettare di dipendere da essa e non ritenersi autonomo, indipendente, autosufficiente. Rimanere in Gesù non è qualcosa di astratto e teorico, ma dipendere concretamente da lui per vivere un’esistenza degna di questo nome. Non è contando sulle proprie forze che il credente può portare frutto, ma ciò dipende dalla qualità della sua relazione di dipendenza da Gesù risorto e dalla sua Parola.
Dal v. 5 inizia la seconda parte del brano, in cui vengono precisati i contenuti della relazione tra il credente e il Signore Gesù Risorto. L’attenzione è sempre il rapporto stretto e reciproco tra il discepolo e il maestro. Quando questo rapporto viene meno, noi non possiamo fare nulla. Una frase che sembra quasi irreale: come può dire Gesù che senza di lui non possiamo fare nulla, quando, al contrario, se ci pensiamo bene, quante cose, ogni giorno, noi riusciamo a fare senza di lui! O meglio, quante cose ogni giorno noi facciamo senza tenere conto di Lui, perché concentrati e centrati altrove! Cos’è il nulla che non possiamo fare senza Gesù? Non possiamo portare frutto in lui, così come ci è stato detto finora nel brano evangelico. Senza una profonda e intima relazione con Gesù, noi non possiamo fruttificare. Ma resta sempre aperta la domanda posta prima: di che frutti stiamo parlando? Forse, adesso, vale la pena cercare nel testo la risposta a questa domanda e la troviamo al v. 8: portare molto frutto significa diventare discepoli di Gesù. Per questo il Padre pota e purifica: perché diventiamo ogni giorno di più discepoli di Gesù e, attraverso di Lui, in ascolto e in dialogo col Padre. Non possiamo fare nulla, cioè non siamo discepoli senza la fedeltà alla Parola di Gesù, senza lasciarci purificare da Dio mediante la Parola di Gesù. Perché questa è la fecondità che Dio Padre sogna per noi: essere discepoli del suo Figlio, ossia imparare da lui a vivere la nostra esistenza da figlie e da figli del Padre.
Senza questa relazione intima e fedele con Gesù Risorto, andiamo incontro a conseguenze catastrofiche: essere come tralci secchi, improduttivi, buoni solo ad essere gettati nel fuoco. La separazione da Gesù implica un giudizio: si precipita nel non senso, nella non vita, in una vita non degna di questo nome.
Chi rimane unito a Gesù, e questo si fa accogliendo la sua Parola, riceve una promessa: «chiedete quel che volete e vi sarà fatto». Il linguaggio del chiedere è legato alla preghiera. Si rimane uniti a Gesù ascoltando la sua Parola e imparando a chiedere nella preghiera ciò che la sua Parola suggerisce. Ancora una volta, non si tratta di chiedere a Lui qualsiasi cosa ci passi per la testa, dando sfogo ai nostri capricci. Si tratta, al contrario, di imparare a chiedere ciò che l’ascolto della Parola di Gesù ha indicato e suggerito.
Tutto questo è sintetizzato nel versetto finale con l’espressione glorificare. La gloria di Dio è la sua presenza amante e portatrice di bene, di salvezza. Dio è reso presente e onorato nel mondo quando i discepoli di Gesù rimangono uniti a lui, rimangono uniti a Gesù attraverso l’ascolto fedele della sua Parola, rimangono uniti a lui pregando, cioè imparando a chiedere al Padre ciò che la Parola di Gesù indica e suggerisce. Questi sono i frutti che il Padre desidera noi credenti possiamo produrre, non per virtù nostra, ma perché intimamente uniti al suo Figlio amato.
don Andrea Albertin