Dopo un tempo di rinvii forzati riprendiamo la “Scuola per formatori all’evangelizzazione e alla catechesi”. Sempre negli anni di attività abbiamo cercato di rinnovare la proposta. In questo tempo non mancano motivi per rimettersi “IN ROTTA”. Evidenzio tre aspetti che vogliono caratterizzare l’iniziativa che si svolgerà a Siusi (BZ) dal 16 al 24 luglio: la capacità di accogliere le sfide dell’oggi; il desiderio di formare annunciatori liberi; la voglia di far intravvedere l’identità della Chiesa.
Vivere il presente
Viviamo un tempo di mutazione madornale, di cui non abbiamo ancora colto l’incisività. Emerge l’uomo sensibile, empatico. Non è più la salvezza che lo attira, ma la salute. L’uomo multidimensionale, abitato da un mondo di mondi. L’uomo in cui si fa strada la prassi del corpo sportivo, erotico, estetico. La religione di questo uomo risulta vagamente spirituale, occasionale, sperimentale, con un tocco di spiritualità e misticismo.
Si possono riscontrare alcuni slittamenti della religione. Per l’immagine di Dio prima prevaleva il Padre eterno, ora il fratello sul cammino che viaggia con noi. Assistiamo a rovesciamenti di prospettiva. Prima l’enfasi sull’essere ora sulla sensibilità sociale. Prima sui misteri forti: peccato, presenza reale, verità, confessione, oggi il pathos del senso e del consenso. Ora siamo rabdomanti delle orme perdute del divino. Siamo passati dalla logica dei vincitori a quello delle vittime. C’è la rivoluzione in tutti i settori della vita, prevale la forza dell’immediatezza che mette in discussione tutte le istituzioni. La gente ha un accesso immediato al divino.
In seguito a questi cambiamenti profondi, e dentro la diffusione della superficialità, nell’annuncio c’è il rischio di partire da un discorso sempre negativo, spezzante sulle cose oggi di moda. Si persiste nel voler ad ogni costo appesantire la vita di tutti con una precettistica rigida, nel voler fare assegnamento sui sensi di colpa, nel voler mettere tutti in una costante posizione di debito nei confronti dell’amore di Dio, della sollecitudine della Chiesa. Tale modalità è pastoralmente controproducente, rischia di svalutare la teologia dell’incarnazione, il movimento inclusivo di Dio, che in Gesù Cristo si è fatto cultura (cfr articolo “La bottega delle idee” sul sito dell’Ufficio Catechistico Nazionale).
Per evitare ulteriori derive occorre pensare il cristianesimo come stile, vale a dire un modo di abitare il mondo sullo stile di Cristo. Comprendere il cristianesimo come stile dispone a pensare la vita cristiana come maniera di abitare il mondo e non al suo insegnamento dottrinale. Occorre fare un annuncio non perché il mondo sia salvato, ma perché è salvato. Questa prospettiva cambia lo spirito, il tono e il ruolo dell’annuncio. Se la salvezza di Gesù è già donata, allora l’annuncio avviene dentro uno spazio di gratuità, senza imposizioni, ne obbligazioni di risultato. L’annuncio non è necessario per la salvezza. Questa non necessità paradossalmente lo rende più facile e desiderabile. È il tesoro nascosto. In pratica proviamo a sostituire il pessimismo dell’intelligenza con l’ottimismo della volontà.
Liberare gli annunciatori
La proposta formativa di Siusi non si basa sul risultato facendosi carico di un compito che non è suo, con esiti difficili per la relazione. L’équipe del corso ha il compito di mettere i partecipanti nella condizione di valorizzare quello che già possiedono. Potrebbe sembrare un atteggiamento lassista, ma è il contrario perché spinge verso una creatività più impegnativa. Forzare il cambiamento ignorando le intenzioni delle persone serve soltanto a provocare una reazione negativa.
Riuscire a fare questo non è per nulla facile, preoccupati come siamo dei risultati e dell’immagine personale ma, come dice un adagio: “Porta il cavallo all’acqua, sarà lui a decidere se bere”. Il compito dell’educatore è portare all’acqua, bere resta una scelta dell’altro. E questo vale in ogni ambito educativo. Spesso crediamo di aiutare quanti si mettono in formazione sostituendoci a loro. Non solo li costringiamo a bere, ma beviamo noi per loro. Fare la nostra parte è evitare sia l’indifferenza, sia il controllo, il nostro compito è qualificare la presenza. Ogni azione ha una conseguenza.
Occorre mettere in conto che non ci sono scorciatoie alla fatica. Non ci sono soluzioni pronto uso. La strada vincente è il lavorare in équipe. Questa attenzione richiede la rinuncia alle nostre aspettative a favore della fiducia e restituisce alle persone il loro protagonismo: le conseguenze delle loro scelte sono solo loro.
Così le persone crescono e noi a poco a poco ci liberiamo dall’ansia del risultato. In questi anni di formazione abbiamo imparato a dare questo tipo di fiducia, questo ci ha portato a escogitare gesti educativi dall’esito sorprendente: se li porti all’acqua e hanno sete, berranno. È il linguaggio inventato dell’amore per quello che si fa e propone, che sa dividere i compiti e abbattere le barriere relazionali. Noi proviamo a generare emozioni, per creare ricordi e poi produrre azioni.
Valorizzare l’identità della chiesa
In questa operazione di liberazione tentiamo pure di posizionare correttamente la chiesa perché ci sono molti cliché stonati. In sostanza la chiesa esiste per il bene comune e non per difendere i propri diritti. È questo che chiede il vangelo, ed è questo che le dà identità. La chiesa non deve avere paura della propria identità. Senza identità non ha niente da dire. Se non rappresenta niente, non ha nulla da proporre. È importante però che sia un’identità aperta, confessante. L’identità è caratterizzata da un Dio che è alla ricerca dell’amore, che non è sufficiente a sé stesso. È un Dio che entra in relazione. La nostra identità è un Dio non indifferente, e la fede chiede alla comunità cristiana di uscire per andare incontro all’altro. È la nostra identità che non ci fa ripiegare su noi stessi. La chiesa non è un mondo accanto al mondo, essa condivide le gioie e le pene del nostro tempo (GS).
Essere cristiani vuol dire condividere la vita aperta sul mondo.
Dio è all’opera in ogni persona e non abbandona chi ha creato. C’è bisogno di tempo perché l’opera di Dio si realizzi. Egli è paziente. Non bisogna fare le cose troppo in fretta. A volte non si sa che cosa sta facendo, ma opera. Noi non possiamo dare la fede, essa è opera di Dio. Compito della chiesa è essere accogliente, non settaria. Bisogna prendere con rispetto le domande delle persone. Se uno è riconosciuto più facilmente si avvicina a chi lo riconosce. Più che le riforme istituzionali, la chiesa ha bisogno di qualificare la qualità degli incontri. Quando si rispetta la libertà dell’altro, possono nascere cose belle. Questo non significa una chiesa che non ha identità, ma scoprire che si identifica nel rispetto, e non può che ringiovanire con la scoperta del vangelo.
In una cultura secolarizzata ci sono visioni differenti, con l’immigrazione a cui stiamo assistendo le comunità diventeranno più modeste, è inevitabile. Ma alla chiesa rimane il compito di essere il segno che Dio ha bisogno per farsi conoscere. È un mezzo debole. Ma l’efficacia o meno della comunità cristiana non dipende dal numero, ma dall’essere più o meno significativa. Una comunità che si ritira diventa insignificante. Occorre convincersi che la domenica non è la popolazione che si riunisce, sono i cristiani.
La chiesa è allora missionaria non nei grandi eventi, o nell’organizzazione di campagne pubblicitarie, ma lo è perché è nella sua natura. È missionaria perché celebra, si impegna per i poveri e i malati, lascia la libertà ad ogni persona. La missione viene da Dio, è lui che ha inviato suo Figlio. La chiesa è testimone di questa missione e lo Spirito è all’opera perché si realizzi.
Per una formazione che rimetta al centro la vita di ognuno, che ascolti i vari membri dell’équipe, che cerchi insieme possibilità di annuncio oggi, l’esperienza che proponiamo è davvero importante. Con questi desideri intendiamo metterci “IN ROTTA”, a Siusi, per aiutare operatori pastorali e catechisti a riconcepirsi, a liberarsi da un pensiero già pensato.
p. Rinaldo Paganelli